LE COSE CHE HO IMPARATO NELLA VITA
di Paulo Coelho

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:
Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà.
E per questo, bisognerà che tu la perdoni.
Che ci vogliono anni per costruire la fiducia
e solo pochi secondi per distruggerla.
Che non dobbiamo cambiare amici,
se comprendiamo che gli amici cambiano.
Che le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi,
ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
Che la pazienza richiede molta pratica.
Che ci sono persone che ci amano,
ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai,
è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti,
non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze:
sarebbe una tragedia se lo credesse.
Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno.
Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato;
il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.
Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata
prima di incontrare quella giusta,
così quando finalmente la incontriamo,
sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre,
ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa,
che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se fosse stata la miglior conversazione mai avuta.
È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
Non cercare le apparenze, possono ingannare.
Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere
perché ci vuole solo un sorriso
per far sembrare brillante una giornataccia.
Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.
Ci sono momenti nella vita
in cui qualcuno ti manca così tanto
che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce,
difficoltà a sufficienza da renderti forte,
dolore abbastanza da renderti umano,
speranza sufficiente a renderti felice.
Mettiti sempre nei panni degli altri.
Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l’importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.
Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico a sorridere e ognuno intorno a te a piangere.
Manda questo messaggio a coloro che significano qualcosa per te, a quelli che hanno toccato la tua vita in un modo o nell’altro, a quelli che ti fanno sorridere quando veramente ne hai bisogno, a quelli che ti fanno vedere il lato bello delle cose quando sei proprio giù, a quelli cui vuoi far sapere che apprezzi la loro amicizia.
Se non lo fai, non ti preoccupare, non ti accadrà niente di male, perderai solo l’opportunità di rallegrare la giornata di qualcuno con questo messaggio.


ETICA DEI COMPORTAMENTI,
LEGALITA’
E COMPATIBILITA’ AMBIENTALE
FATTORI RILEVANTI
DI CONVENIENZA ECONOMICA

di Paolo Pantano


John M. Hartwick (1) sostiene che “per mantenere intatto il capitale sociale ed ambientale, o se proviamo a sostituire i valori umani soppressi, le risorse esaurite o i beni degradati con uno specifico ammontare d’investimento di rendite di risorse aggregate, abbiamo la possibilità di preservare alle generazioni future l’opzione di non stare peggio della generazione che l’ha preceduta.”
Ciò risponde ad un’etica che dovrebbe essere sufficiente a far sì che il genere umano adotti tutte le precauzioni per prevenire, nel miglior modo possibile, i danni all’ambiente sociale e fisico per non disperdere la quantità ereditata di risorse naturali. Persino Adam Smith (2), il più importante sostenitore dell’interesse personale come molla dell’economia, nella sua Teoria dei sentimenti morali afferma che “ l’uomo dovrebbe considerare se stesso non come qualcosa di separato e staccato, ma come un cittadino del mondo, un membro della vasta comunità della natura ed all’interesse di questa grande comunità egli dovrebbe sempre esser lieto che si sacrifichi il suo piccolo interesse personale “ (pag.92). La base delle argomentazioni del saggio Etica ed Economia del premio Nobel 1998 per l’economia Amartya Sen (3) risiede nel concetto che “ l’economia può essere resa più produttiva prestando maggiore e più esplicita attenzione alle considerazioni di natura etica che informano il comportamento umano; come, d'altronde, lo studio dell’etica può, a sua volta, beneficiare da un più stretto contatto con l’economia. Il comportamento mosso dall’interesse personale, in economia, ha ostacolato l’analisi di relazioni molto significative, come, d'altronde, un comportamento collettivo egoista diventa antieconomico per l’intera comunità. Ad esempio, infatti, a causa dello sfruttamento massiccio, da parte delle nazioni industrializzate, delle risorse naturali non rinnovabili, si va verso l’esaurimento di alcune di esse e quindi diventa sempre più costoso estrarre energia da fonti sempre meno sfruttabili, pertanto i costi per la dissipazione d’energia e per il degrado ambientale si sommano ai costi sociali. L’impoverimento, il sottosviluppo, la fame, le malattie creano profondi disagi, ribellioni, crisi sociali ed esistenziali, crescita della criminalità e conseguenti spese per fronteggiare il malessere e reprimere i reati conseguenti. Investire, invece, nella prevenzione e nell’educazione alla legalità è conveniente proprio dal punto di vista economico poiché lo sviluppo migliore è possibile dove esiste la stabilità e dove vi è sicurezza per gli operatori finanziari. Questi hanno più propensione ad investire proprio dove le istituzioni sono più salde e dove vi è maggiore impermeabilità nei confronti delle organizzazioni criminali. Come per la salute è ormai assodato che è conveniente investire nella prevenzione, così è per l’ambiente ed anche per la legalità. Vi sono studi sistemici che dimostrano che le spese sostenute per la prevenzione fanno risparmiare le comunità.”
Come sostiene, d’altronde, Joseph E. Stiglitz (4) (premio Nobel 2001 per l’economia) nel saggio In un mondo imperfetto: “Le cattive politiche economiche sono causa di rivolte sociali e politiche, vi è fuga di capitali, si rompe l’ordine sociale e, di fatto, l’economia della nazione si allontana ancora dalla possibile ripresa.”
Come afferma Jeremy Rifkin (5), lo stesso, possiamo dire, avviene per le risorse culturali. Anche queste rischiano di essere sfruttate oltre ogni limite e di venire, perciò, depauperate, proprio come accadde nell’era industriale alle risorse naturali. Sostiene Rifkin che “bisogna trovare un modo per preservare e stimolare la diversità delle culture, cioè la linfa vitale della civiltà, e questo soprattutto oggi poiché siamo in un’economia di reti globali; ciò sarà una delle questioni politiche prioritarie del nuovo secolo.”
Le persone creano comunità, costruiscono elaborati codici di comportamento, trasmettono significati e valori condivisi e costruiscono rapporti di fiducia in forma di capitale sociale. Solo se la fiducia e le relazioni sociali corrette sono ben sviluppate, gli individui si dedicano al commercio. Se ne deduce che la sfera economica è sempre stata derivata, e dipendente, da quella culturale. Questo perché la cultura è la sorgente da cui provengono le norme di comportamento condivise. Sono tali norme che, a loro volta, creano un ambiente affidabile, dove commercio e scambi possono avere luogo. Quando la sfera economica comincia a divorare la sfera culturale le fondamenta sociali che hanno reso possibili ed incentivato le relazioni rischiano di essere distrutte. Ripristinare un equilibrio adeguato fra il dominio della cultura e quello dell’economia sarà, probabilmente, un imperativo categorico per salvare il capitale culturale, evitare l’omologazione e l’appiattimento culturale da un lato e la mancanza di stabilità economica, dall’altro, con gravi deficit sociali ed istituzionali.
Un’economia responsabile ed un’etica di salvaguardia delle stabilità e della tutela del capitale culturale oltre che creare un’identità precisa, creano un circolo virtuoso di rating (affidabilità) tra le istituzioni e la società e tra le nazioni stesse. Da un reciproco riconoscimento nasce la fiducia e la convenienza a stipulare contratti vantaggiosi, ciò rappresenta il valore aggiunto nei rapporti economici e sociali.
Come per la biologia e l’economia vi è spesso un’analogia tra i principi che regolano le due discipline, come la matematica si rivela indispensabile modellatrice di forme molecolari complesse, come la Fisica, ha unificato l’approccio al problema della diversità energetica nei sistemi non-viventi (avvalendosi dei principi della Termodinamica), così l’etica e l’economia, pertanto, sono costrette ad interagire costantemente per ottenere risultati rilevanti e per guidare i complessi progetti di sintesi richiesti dal nostro tempo. Lionel Robbins (7), nel suo autorevole Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, - affermava: “ Non sembra logicamente possibile associare i due studi (economia ed etica) in una forma qualsiasi che non sia una semplice giustapposizione “. Questo assunto formulato negli anni Trenta è, oggi, condiviso da autorevoli rappresentanti della comunità scientifica ed in particolare dai premi Nobel per l’economia Tobin, Solow, Becker, Amartya Sen e Stiglitz.
Vi è stato, negli ultimi tempi, un positivo processo di riunificazione dei saperi, ciò ha comportato una migliore comprensione dei meccanismi delle varie discipline al fine di ottenere comportamenti equilibrati e transazioni reciprocamente vantaggiose e quindi economie di scala più convenienti, ma anche percorsi di sviluppo sostenibili e di conseguenza più efficaci per le complessive compatibilità del pianeta.

 

Bibliografia :
(1) John M. Hartwick – Non-renewable resources extraction programs and markets (Fundamentals of pure and applied economics series ) October 1989
(2) Adam Smith – The Theory of Moral Sentimentes, edizione riveduta, ristampato in D.D. Raphael e A.L. Macfie (a cura di) Clarendon Press, Oxford 1975 - tr. it. parziale a cura di Antonino Negri, Il giudizio etico, Minerva Italica, Bergamo 1970
(3) Amartya Sen – “Etica ed Economia “ Edizioni Laterza, Bari terza edizione 2001
(4) Joseph E. Stiglitz – “ In un mondo imperfetto “, Donzelli Editore, Roma 2001
(5) Jeremy Rifkin – “ L’era dell’accesso “ Oscar Mondatori, Milano 2001
(6) Lionel Robbins – “ Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica “ tr. It. A cura di Pasquale Jannaccone, UTET, Torino 1953


F. E. ALBI, da Grimaldi (CS), Italia, ha conseguito un Ph.D. in Lingue e Letterature Romanze presso l’Università di California a Berkeley. Fra i suoi scritti recenti, parzialmente pubblicati, sono Pebbles in the Sand e Wilding in the Morn. Sighs and Songs of Aztlán, First Anthology of Chicano Literatur, Peregrinando (novelle) e una monografia su Salvatore di Giacomo sono fra i suoi primi lavori.
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NATALE... IN AMERICA
di F. E. Albi

Spigolando sull’approssimarsi delle natalizie, tornerebbe più romantico (e forse meno attendibile!) affidarsi alla magia del ricordo e della reminiscenza. Ma la realtà del momento fa prevalere associazioni insolite a riflessioni tradizionali. Capita così di abbinare il ciclo natalizio a quello elettorale, ambo connessi all’ingranaggio economico, e quindi essenzialmente perenni in America. Le campagne elettorali ricominciano con l’annunzio dei risultati dell’ultimo suffragio, ed il mercanteggiare natalizio si rinnova non appena svenduti gli ultimi saldi. Si chiude un occhio, e vien di cavillare sulla scarsa equivalenza del “Merry” e del “Buon”: il primo suggerisce la giovialità esuberante d’un pancione incappucciato, in tenuta rosso/bianca e stivali neri, ormai simbolo di commercio; il secondo sembra richiamare valori spirituali, e segnalare la penuria d’uomini di buona volontà. Odio, guerra, fame, pestilenza, cupidigia! Ordigni a bersaglio garantito, battaglie notturne, al fresco, con truppe vaccinate, in tenuta climatizzata e maschera antitutto. Visioni apocalittiche. Cabala o Bibbia in mano, si predica l’imminente compimento di profezie antitetiche: l’arrivo del Messia, per gli ebrei ortodossi, e la Seconda Venuta di Cristo per i protestanti. Fra chi non è dotato di spirito profetico, Babbo Natale è emblematico più di banchetti che non della mangiatoia. Siamo un po’ tutti condizionati all’insegna del troppo: mangiare, bere, e spendere, spesso anche quello che non si possiede. Si riconosce, al tempo, l’altruismo di tanta brava gente che preferisce celebrare il Natale, un anno dopo l’altro, a servizio della comunità, provvedendo ai bisogni di chi nulla tiene, lavorando in cucine pubbliche, e servendo ai poveri ed ai senzatetto sostanziosi pasti a base di tacchino al forno e torta di zucca. Meals on Wheels (Pasti su ruote) si occupa della distribuzione a domicilio per ammalati o individui che non si possono muovere. Sarà un modo di far penitenza per un “Christmas” ridotto a sinonimo d’affari. Alcune industrie si sorreggono esclusivamente sulla gestione della Natività, mentre gran parte delle altre conta sugli introiti natalizi – che variano dal 20 all’80% del totale annuo – per mandare avanti la baracca.
Fattore economico a parte, Natale è festa universale, che ognuno celebra secondo i propri atavici costumi, quasi indistruttibili in fondo al crogiolo. Gente di tutte le razze, proveniente da ogni parte del mondo, vive in America. A New York si parlano ben 154 idiomi distinti. V’è enorme ricchezza in tanta differenza, quasi a suggerire che la vita, benché sempre un miracolo, è anche un accidente. Se cromosomi, ambiente ed esperienza formano l’individuo, il caso (o la regola del caos) ne determina il sesso, la razza, l’aspetto fisico, il quoziente d’intelligenza, la salute, e persino l’orientamento religioso e la dieta. La libertà di religione invita alla proliferazione di denominazioni diverse: in America, se ne annoverano intorno a 1500! Si suol dire che chi non è allergico ai fornelli tende a rivelare in cucina il proprio patrimonio ancestrale.
Si calcola che Gesù nasce in marzo o aprile, due o tre anni prima dell’era che definisce. Il 25 dicembre è data arbitraria, scelta fra l’altro perché in prossimità del solstizio invernale, periodo dei Saturnalia romani e d’altri riti pagani. Agli effetti pratici e spirituali, nulla si toglie alla solennità della ricorrenza. Certamente non a caso, in data più recente – 1966 – Maulana Karenga, attivista americano, istituendo il festival africano dei primi frutti – Kwanzaa – decide di collocarlo nel periodo che va dal 26 dicembre al primo gennaio. Il rito, redatto in swahili, è un impasto di principi etnici in veste sacro-profana, fondati sull’etica universale. Le sette candele del mishumaa si accendono, una ogni giorno, per rappresentare unità, autodecisione, lavoro e responsabilità collettivi, cooperazione economica, proposito, creatività e fede.
In seno alla Chiesa Cattolica, la festa della Natività ha origine nel 336. In Inghilterra, Christes maesse o Christmas, festival di Cristo, risale al 1050. Xmas, la cui X sta per crocifissione e per la lettera greca chi di Kristos, rimonta al 1300. Sin dall’inizio, una varietà di riti nordici si confondono con quelli cristiani. Lunga è la tradizione del mistletoe (vischio), simbolo di vita e fertilità, nonché di pace e salute. Sacra a Freya, dea norvegese dell’amore, la lorantacea sempreverde si appende in un posto prominente della casa, e protegge tuttora chi, durante le feste, si scambia un bacio sotto la pianta parassita. Tanta mescolanza di riti sacro-profani per magnificare il Natale non riscosse il beneplacito della Riforma; più tardi, nel XVII secolo, i Puritani finirono per bandirne ogni festività in Inghilterra e Nord America, dove la ricorrenza soleva indurre a giochi d’azzardo e generosa indulgenza alle orge.
I regali solevano limitarsi a piccole somme in danaro, che i ricchi donavano ai poveri, ed i padroni ai servi. In cambio, i servi offrivano un limone. Prima della rivoluzione industriale, e quindi dello sviluppo della classe media e d’una certa agiatezza, non esisteva lo scambio di regali in famiglia o fra amici e parenti. Il Thanksgiving o Giorno del ringraziamento, che pellegrini e pellirosse solevano dapprima celebrare in agosto, venne eventualmente spostato per designare l’inizio ufficiale delle festività natalizie. A petizione dei mercanti, il presidente Roosevelt, nel 1937, anticipò il Thanksgiving d’una settimana, per dar loro più agio di smerciare la roba. I dissensi sindacali che il settembre scorso portarono al blocco del traffico marittimo sul Pacifico spinsero la Casa Bianca ad intervenire per evitare che le spedizioni non arrivassero in tempo utile.
Fra le consuetudini più comuni, quella dell’albero e di Babbo Natale, ambo di origine europea, fanno concorrenza al Bimbo Redentore. Il primo, anch’esso simbolo pagano di fertilità, fu introdotto in America da immigranti germanici nel secolo XVII. La leggenda lo fa rimontare ad una passeggiata di Lutero, in una notte di Vigilia, in una foresta di abeti. Estasiato dalla bellezza della natura, il monaco si portò un albero a casa, e lo decorò. Nel 1841, il principe Alberto di Germania ne regalò uno alla consorte, Vittoria d’Inghilterra. Quella di Santa Claus, nelle sue molteplici varianti, è una leggenda che risale alla prima cristianità. Incorporando una varietà di riti pagani, Befana inclusa, Santa Claus, in abito da vescovo, galoppa per il cielo in groppa ad un cavallo bianco, per distribuire regali ai bambini buoni. Lo gnomo che a volte lo segue – Black Peter – punisce quelli cattivi. Il personaggio germanico, Christkindl, che si commemorava il 6 dicembre, ha generato Kriss Kringle nei paesi di lingua inglese. Il Santa Claus americano proviene dall’olandese Sinter Claas, “importato” nel 17esimo secolo. A cominciare dal 1773, appaiono svariate versioni in racconti e poesie. Fra tanta confusione di riti e miti, Paolo VI depose il santo dal calendario ufficiale nel 1969. La prima cartolina augurale, di John Calcott, è del 1843. A partire dal 1875, la consuetudine si popolarizzò man mano con il perfezionamento della litografia.
Dovuto all’eterogeneità del popolo americano e delle concentrazioni etniche in svariate parti dell’unione, le tradizioni natalizie risalgono al paese d'origine dell'immigrante. In alcune comunità di prevalenza scandinava, si onora Santa Lucia, martire del secolo IV. In zone d’ascendenza germanica, sono comuni i putzes o presepi primitivi. Nella Louisiana, lungo le sponde del Mississipì, i Cajun, Acadi franco-canadesi originari della Nova Scozia, accendono falò affinché Père Nöel trovi più facilmente la strada di casa loro. In Terranova, Canada, ha scarso successo il mummering, di origine britannica: coppie in maschera, o in abiti del sesso opposto, cercano di non farsi conoscere dagli amici che visitano, per finire tutti festeggiando con bevande e dolciumi. Fra le moltitudini messicane sono numerose le posadas o rappresentazioni drammatiche simili a quelle svolte in Assisi, al tempo del Santo: Maria e Giuseppe bussano invano da porta a porta cercando alloggio, fino a quando qualcuno non li ospita per far festa insieme. I piccoli mandano messaggi a Gesù Bambino (ed a Quetzalcoatl, dio azteca!) con richieste di regali. Babbo Natale domina ovunque: nel solito costume, suona (a paga minima!) un campanello davanti ai supermercati per invogliare la gente a deporre spiccioli nella pentola rossa appesa al tripode della Salvation Army. Dentro i negozi, Santa posa con i bimbi, e riceve confidenze sulle loro predilezioni. Abita al Polo Nord, dove innumerevoli gnomi allestiscono tutte le spedizioni da recapitare la notte di Natale, via aerea, con slitta trainata da cervi che volano senz’ali. La pubblicità generale contribuisce al parossismo: luci, decorazioni, parate, film tradizionali, balletti. Si rispolverano vecchie melodie. Raramente capita di ascoltare un motivo religioso come Tu scendi dalle stelle, ma di solito è Rudolph, the red nose (e simili) che tiene banco. Fra le melodie, di gran lunga la più rinomata è White Christmas. Dettata nel 1941 da Irving Berlin, ebreo-americano d’origine russa, fu lanciata da Bing Crosby in piena guerra, nel 1942, e continua ad avere un successo fenomenale, come inno alla nostalgia. Non si fa allusione alla Natività.
Molti fra noi non sanno dov’è Betlemme. Un recente sondaggio, della CBS, non può non sbalordire: due su tre vogliono la guerra, ma uno su tre non sa dove sia l’Iraq (che spesso diventa Airaq!). Mentre Galileo continua a trasmettere dati da distanze difficilmente immaginabili, l’uno su sei, con o senza lanterna, non riesce a scovare l’America sul mappamondo. Con Sharon e Netanyahu a sentinella della Grotta, e con Saddam e Bush a modello di compassione, rincuora sapere che non si muove foglia che Dio non voglia. Per la gente di poca fede, vige la consapevolezza che, ad ogni istante, indipendentemente dalla volontà dell’individuo, nel caotico ordine dell’universo, tutto è sempre come deve essere.
Buon Natale!


Shakespeare and Company

Un caldo insolito e un soleil de nuit, per usare il titolo felice di un libro di versi di Prévert, accarezzano le giornate parigine di metà febbraio. Persino un quotidiano titola in piena prima pagina “L’estate d’inverno a Parigi”.
Al Quai de Malaquais, tanto caro a Sciascia che vi frequentava le librerie antiquarie, les bouquinistes, sul lungosenna, imperturbabili come sempre, osservano i passanti, offrono ascolto ai curiosi, suggeriscono gli acquisti di libri, stampe, riviste. Notre Dame si erge maestosa nell’Ile, quasi a fare da cuore pulsante del centro della ville lumière. A lato, sempre sulla rive gauche, al 37 di rue de la Bûcherie la libreria Shakespeare and Company è immarcescibile. Non si capisce se la facciata è come la foto di tanti anni fa, oppure è la foto che riproduce intatta la facciata della libreria ora come allora. Nello spiazzale antistante ampi scatoloni contengono libri usati, alla rinfusa, offerti al pubblico a prezzi stracciati.
La porta d’ingresso è aperta; mi accade di strisciarla appena: scricchiola e mi fa venire addosso i libri allocati alla maniera della libreria di Ciccio Urso.
Li raccolgo e non senza fatica li ripongo ai loro posti di attesa.
È ancora là dietro il tavolinetto, seduto sulla sedia, George Whitman. Ancora come tanti anni fa, quando gli consegnai il primo volumetto di poesie Miraggi e lui si affrettò a chiamare un ragazzo con una cinepresa per farmi un’intervista.
“Voi siete italiano e poeta”, mi aveva detto allora, vedendomi osservare gli scaffali che da terra al soffitto contengono libri in larga parte di lingua inglese.
“Come avete fatto a capirlo?” avevo chiesto.
“Italiano, da come siete vestito”.
“E poeta?”
“Sono vecchio…” aveva esclamato, portando l’indice della mano destra sulla palpebra inferiore di un occhio.
Ora è ancora nelle stesse condizioni o quasi, con una più acuita sordità. Comunque è meglio vestito. Al posto delle calze con grossi buchi e pantaloni stracciati indossa un paio di calzoni in velluto con calze in cotone e un maglione privo di buchi ma pieno di macchie.
Gli chiedo se ha ricevuto il volumetto Datteri verdi, che porta una poesia sulla libreria.
“Quando l’avete inviato?”, mi chiede.
“Alcuni anni fa”, rispondo.
“No, no, non ricordo di averlo ricevuto; per noi è molto importante una poesia o uno scritto sulla libreria”.
Mi invita a un rendez-vous per il dì seguente alle ore 16, al piano superiore della libreria, per un salotto letterario. Accetto.
Mostro a mia figlia Cetty la libreria.
Una ripida scaletta in legno conduce al piano rialzato.
Anche lì libri ovunque e anche due lettini, un tavolo, quattro sedie e una vecchia macchina da scrivere Remington, che gli ospiti possono utilizzare: c’è un ragazzo di colore, studente della Sorbona, che sta dattiloscrivendo una tesina. Un frigorifero come quelli di cui ho ricordo da bambino, un lavello in acciaio, un cucinino… Cetty osserva e commenta sbalordita.
Alle 16,30 del giorno appresso mi presento in libreria. Il vecchio, vedendomi fra gli avventori, mi fa cenno con la mano.
Prega un signore di scattarci una foto con la mia macchina fotografica, poi mi apre il portone accanto, verde, e m’invita a salire al primo piano. Nell’ingresso c’è tanta posta per terra e una bicicletta appoggiata sotto la buca delle lettere. Una larga scala mi conduce al piano superiore. La stanza, che ha la finestra che sporge su Notre Dame, è stracolma di libri; ci sono anche un tavolo, tre sedie e due sofà. Talune carpette contengono scritti sulla libreria, foto e interviste, tutto materiale d’archivio.
Una quindicina di strani personaggi sostano chi seduto, chi sdraiato, chi in piedi; alcuni sorseggiano un po’ di tè preparato nel cucinino, in un recipiente di rame e versato in bicchieri di plastica del tipo usa e getta, deformati dal troppo uso.
Le lingue che sento parlare sono prevalentemente inglese e tedesco, ma mi accorgo anche di una coppia di giapponesi. Tutta gente con in mano un libro, una rivista o che affronta un argomento letterario.
A loro confronto Whitman, che non brilla certo per eleganza, sembra alla moda.
Mi sento a disagio, ma prima l’indifferenza, poi la tiepida cordialità dei presenti mi induce a restare e a recitare la parte della comparsa o se si vuole, di un voyeur in quello strano salotto letterario. Ognuno avrà avuto le proprie buone ragioni per interloquire con gli altri: ho la vaga impressione di trovarmi in uno di quei locali dove, al tempo degli hippies, i figli dei fiori, si discuteva di amore e non di guerra.
Il tramonto s’approssima. Scendo giù, mi avvicino a Whitman e, ringraziandolo, gli comunico che gli manderò una fotocopia della poesia e la foto scattata prima.
Mi stringe forte la mano, dicendomi ad alta voce “Molte grazie, signore…”. Mi reimmergo nell’aria di Parigi. Senza voltarmi, comincio a percorrere il lungosenna, incrocio un via vai di gente, ma non la vedo: ripenso a quell’uomo canuto, con le palpebre rosse, un solo dente nell’arcata gengivaria inferiore, un maglione sporco, ma con un cuore generoso e pulito.
Giovanni Stella
Per RADIO TRE!!!
Interveniamo tempestivamente,
affinché non taccia una voce bella, preziosa, coraggiosa.
Una voce che è stata e potrebbe ancora essere la nostra.

di Cristina Tambacopoulos
L'altro giorno ho acceso la radio, sintonizzandomi sulle solite frequenze: Radiotre. Radio intelligente che da tempo ascolto, ammiro, difendo come idea, perché m'informa e mi forma, mi racconta, mi istruisce, mi rilassa e mi diverte senza involgarirmi, rivolgendosi al mio intelletto, senza mai trascurare le emozioni che per me contano parimenti - anzi, me ne insegna di nuove; un'isola piccola, ma felice, in un mare ultimamente infelicissimo dal punto di vista culturale. Radio che soddisfa la mia curiosità più sana, promuove il mio amore per il bello, la mia insofferenza per il brutto, il volgare; un esercizio costante che acuisce anche il mio senso critico e rinforza la mia coscienza civica e civile, facendomi sentire cittadina fiera di una società e di un mondo che ama riflettere ed essere rispettato per questo, che rifiuta il fast food della mente - precotto ed indigesto - che i vari mass media ci servono quotidianamente a iosa, con rare eccezioni (Radiotre lo è stata per anni) che confermano solo la triste regola della cultura del consumo di un mondo inteso diversamente: un mondo di mercanti e di infinite mercanzie che non escludono nemmeno gli affetti, dove vige la logica delle cifre (offerta che s'adegua alla domanda) e dell'immagine.

Radiotre, finora isola felice del sapere. Radiotre che amo e che ascolto, ma non riconosco più. Qualcosa non è più come prima, qualcosa non quadra, qualcosa se ne va della sua identità, un'insolita tendenza a ...giocherellare più del solito, come per paura che qualcuno si possa annoiare. Eppure... i nomi, le voci dei presentatori sono ancora (ma fino a quando?) gli stessi. Solo che - strano, ma vero - mi sorprendo ad annoiarmi. Perché ho la sensazione che la mia radio non parla più, ma solo "dice delle cose"? Perché sono tentata di cambiare frequenza? Una veloce passeggiata (per l'ora tarda) nel web offre una parziale risposta al mio quesito: infatti, da qualche mese sono in atto dei cambiamenti che hanno portato alla fusione di Radiotre con Radiodue, sotto la direzione di Sergio Valzania, direttore di Radiodue fino allo scorso aprile. Ora vedo pienamente confermata la notizia che mi era arrivata per mail un po' di tempo fa sotto il titolo preoccupante "Addio ai programmi di Radiotre". Vorrei ringraziare l'amica che l'ha avuta prima di me e molto sollecita me l'ha fatta avere subito. Nel contempo, non posso non preoccuparmi: cosa detta questa decisione, chi l'ha votata e per chi e a quali "miglioramenti" finora insospettati da noi - massa amorfa di ascoltatori ignoranti?! - porterà mai la cancellazione di validissime trasmissioni di cultura (anche etnica), quali Buddha Bar, Grammelot o L'Arcimboldo (un'ora piena, dedicata all'Arte) e che cosa le sostituirà? Chissà... staremo a vedere.

Naturalmente, un'idea me la sono già fatta; non serve certo essere dei grandi esperti per vedere l'evidente, basta e avanza il senso comune. Quello su cui - ovviamente! - il Signor Valzania conta meno, quando da un lato afferma che Radiotre è una radio "costruita principalmente per il popolo della sinistra" e dall'altro, propone delle "scelte musicali moderne e più propositive" (banalmente tradotto in musica un po' "per tutti i gusti"), per risanare "una radio che negli ultimi tempi quasi ricordava ...Radio Maria"! Non ci credete? Cercatevi l'articolo sull'argomento in questione, apparso ultimamente su La Stampa . Provare per credere. Oltre che la comprensibile frustrazione, perdonatemi poi la confusione. Non si capisce se c'è da vergognarsi di più (e quindi risanarsi) per essere del popolo di sinistra o ascoltatore di Radiotre o intellettuale o infine ...amante di Radio Maria! Il signor direttore ce lo dovrà spiegare.

Per chi si è sentito preoccupato e offeso da tanta volgarità, lascio alcuni indirizzi dove è possibile far ascoltare la propria voce. Se davvero teniamo alla Cultura con C maiuscola, dobbiamo dimostrare di meritarcela. Fermiamo con decisione un ulteriore passo verso lo svilimento. Interveniamo tempestivamente, affinché non taccia una voce bella, preziosa, coraggiosa. Una voce che è stata e potrebbe ancora essere la nostra.

Con arrabbiata preoccupazione,
Cristina

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Domenica 11 dicembre 2005 alle ore 18.00 nei locali di Crisilio Castello ad Avola, Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla hanno presentato i volumi da loro curati: Stefano Pirandello, Tutto il teatro, Bompiani e Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, Ed. La Cantinella. Sebastiano Burgaretta è intervenuto col discorso che qui di seguito riportiamo.

I PIRANDELLO OLTRE LA MASCHERA
di Sebastiano Burgaretta

Pirandello e StefanoLa vita o si vive o si scrive. Io non l’ho vissuta, se non scrivendola. Questo è ciò che scrisse il 10 0ttobre 1921 Luigi Pirandello a Ugo Ojetti. Questa confessione, che allora sarebbe potuta apparire la spia di una certa civetteria intellettuale, oggi si rivela per quella che veramente era, cioè il segno di un disagio esistenziale personalmente vissuto e intimamente sofferto, al di là dell’immagine che del grande drammaturgo siciliano si è potuta sedimentare nella mente di lettori e studiosi. La verità è che ci vendichiamo, scrivendo, d’esser nati avrebbe poi scritto ai figli Pirandello. Lo stesso concetto, del resto, è confermato in termini più circostanziati in quella sorta di riflesso speculare che ne viene dato dal figlio Stefano in una lettera al padre, del 10 giugno 1926, nella quale, cercando di incoraggiarlo, scrive testualmente:Io vedo che sei sempre arrivato ad approfittarti di ogni sciagura, di ogni contrarietà, per la tua arte – sei sempre riuscito ad astrarle dalle determinazioni dei tuoi casi e a poterci lavorare sopra. Tu hai sempre dominato te stesso e la tua sorte. Se tu avessi avuto una sorte più facile, a che ti sarebbe servito possedere tanta energia?[…] Essere infelice, come tu sei, Papà mio, vale bene la pena di esserlo!(1).
Da questo scambio dialogico si può desumere la cifra dialettica del rapporto tormentato e difficile che Pirandello ebbe con la vita e, in essa, anche con i suoi familiari. Un rapporto umano, affettivo e dialettico, quest’ultimo, che oggi permette di riconoscere che i giganti in casa Pirandello, sul piano esistenziale e su quello culturale, siano stati più d’uno. Ciò si può affermare quasi con certezza alla luce dell’epistolario intercorso tra Luigi Pirandello e il figlio Stefano nel periodo che va dal 1919 al 1936 e ora pubblicato a cura di Sarah Zappulla Muscarà col titolo Nel tempo della lontananza per le edizioni La Cantinella.
La pubblicazione risulta preziosa su piani diversi. Il volume, infatti, integra la parte dell’epistolario che fra i due Pirandello si produsse negli anni difficili della prima guerra mondiale e che è stato pochi mesi fa pubblicato presso Mondatori dal figlio primogenito di Stefano, Andrea, col titolo Il figlio prigioniero; il libro completa inoltre il lavoro della stessa Muscarà e di Enzo Zappulla profuso nella pubblicazione, avvenuta nel 2004 per le edizioni Bompiani, dei tre volumi di Tutto il teatro di Stefano Pirandello, cui, ad opera dei due studiosi, è stato finalmente restituito il suo vero – e per tanto tempo ingombrante – cognome, mettendo da parte lo pseudonimo Landi, dietro il quale si era a suo tempo dignitosamente e orgogliosamente velato Stefano Pirandello.
Il duplice lavoro dei due studiosi catanesi costituisce un unicum, nel quale degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca, se si vuole avere una visione unitaria e credibile dell’universo esistenziale e culturale che formò l’humus di vita tout court, in tutte le sue implicazioni cioè, - letterarie e no – dei due Pirandello.
La vicenda umana che si squaderna nel rapporto tra padre e figlio attraverso l’epistolario degli anni della lontananza sdegnata di Pirandello dall’Italia è tra le più complesse e drammatiche, ma altresì tra le più coraggiose e al contempo tenere che si possano immaginare. Stefano fu il figlio che, fra i tre di Pirandello, rimase vicino al padre, con tutte le conseguenze di una tale condizione. Fausto, pittore, se ne andò in Francia, lontano dalla fagocitante personalità del padre, Lietta si trasferì col marito in Cile, lasciando l’amaro codazzo delle complicazioni ereditarie che tanta preoccupazione e necessità di lavorare procurarono al padre. Chi Copertinarimase vicino al genitore – si sarebbe tentati di dire sotto il genitore, in verità anche per le ambizioni letterarie del figlio – fu Stefano, il figlio prigioniero, ben si può dire, in tutti i sensi nell’arco della sua vita: fuori casa negli anni bellici in Germania, dentro casa negli anni trascorsi a collaborare con il padre in ogni incombenza comportata dal lavoro e dagli impegni del grande drammaturgo; i due ebbero rapporti intensi e non sempre facili, anzi tutt’altro, con la gente di teatro, con i produttori cinematografici, con gli agenti editoriali, con i capocomici, con gli stessi familiari etc..Gli fece da segretario e da negro anche in determinati momenti di emergenza.
Stefano si comportò sempre con l’esemplarità di un figlio devoto, consapevole della grandezza del padre ma anche delle proprie qualità e duro nell’affermazione della propria dignità e della propria autonomia, talvolta fino alle impennate stizzose: un figlio, sempre figlio… Figlio da sempre, io.Non mancarono certamente in lui momenti di irritazione e di stanchezza in un rapporto of course sbilanciato in partenza che avrebbe stritolato qualsiasi altro figlio che si fosse trovato in una situazione simile alla sua; e gli annali della letteratura universale sono prodighi di conferme in tal senso. Stefano non si lasciò, pur tra le mille difficoltà e i disagi nei quali venne a trovarsi, schiacciare dall’ingombrane presenza del padre nella sua vita. Anzi, alla luce dell’epistolario ora dato alle stampe, si può perfino azzardare che, in determinati momenti della loro complessa vicenda esistenziale, i ruoli paterno e filiale si siano talvolta quasi scambiati fra i due. E’ stato il figlio a fare spesso da padre, e ciò conferma la statura umana, l’equilibrio mentale e l’onestà intellettuale di Stefano. Certo, viene a tratti il sospetto che nel comportamento del figlio verso il genitore sia probabilmente subentrata a un certo punto una qual componente di sublimazione del proprio ruolo e della propria vita accanto e all’ombra di tanto padre. Qualcosa, insomma, che un’indagine di natura psicanalitica potrebbe studiare e chiarire. Ma è tuttavia certo che, stando all’epistolario, se sublimazione ci fu, si trattò di un’opera d’arte della psiche di Stefano, il quale ne esce davvero come un gigante dello spirito, specialmente in considerazione delle macerie che, sul terreno degli equilibri mentali, Pirandello si lasciava dietro le spalle in ambito familiare, con strascichi, sul piano esistenziale, di tipo “pirandelliano”, stante la ferma decisione ultima di Antonietta Portulano, sua moglie, decisione di non tornare con lui, che fa pensare al controverso destino del personaggio, pirandelliano appunto, di Marta Ayala.
PirandelloLa salvezza, diciamo così, dell’equilibrio personale di Stefano, messo a dura prova dal difficile carattere paterno, oltre che dai mille problemi quotidiani e strutturali all’universo dell’uomo e dell’artista Luigi Pirandello, risulta quasi prodigiosa, e certamente ammirevole, tanto più, se si tiene presente il dramma, tutto personale suo, di non vedersi riconosciute le qualità di autore di teatro che indubbiamente ebbe. Coraggioso, non soltanto traumatico, il suo ritiro dagli ambienti teatrali dopo il fiasco registrato nel 1953 dalla messa in scena, ad opera di Giorgio Strehler, di Sacrilegio massimo: sempre più deluso, appartato, solitario – come scrive la Muscarà – si chiudeva in un amaro silenzio, rinunciando a pubblicare ma non a scrivere(2). E già molti anni prima, in una lettera scritta da Berlino il 24 marzo 1930, Luigi aveva cercato di consolare il figlio degli insuccessi teatrali, facendo appello agli affetti familiari che a Stefano arridevano, cosa che non si poteva certo dire del padre, cui per contro arrideva invece il successo teatrale:Tu hai, Stenù mio, il gran conforto della tua bella famigliola, con codesta gioia di Ninì e l’amore dei due maschietti e la compagnia sicura, la divina “due-tudine”, come dice il poeta Dehmel, con la tua Olinda. Se le cose del teatro ti vanno ancora male, ti puoi in qualche modo consolare(3). Come dire: a nessuno è dato di essere felice due volte in contemporanea; non si può avere tutto. E ancora nella stessa lettera:Verrà certo il tuo momento, perché scrivi belle cose…Ma che puoi sperare dalle compagnie italiane, come sono ridotte? Un lavoro come il tuo è fato per un pubblico,speciale preparato ed educato in un teatro adatto. Il pubblico dei soliti teatri non credo che possa sopportare tale spasimo d’umanità
E quando è il padre a manifestare momenti di stanchezza, perfino dell’essere nato, è il figlio a sostenere il padre, incoraggiandolo, come s’è visto nella missiva già ricordata del 1926, per fargli superare l’amarezza di cui soffriva: Sono profondamente amareggiato e ho bisogno di non pensare a nulla di quanto è avvenuto nella nostra sciaguratissima casa distrutta. Io sarò sempre, e tutto, per voi; oltre il mio affetto che non può mutare né scemare, avrete da me, seguirete ad avere, con vostra sorella tutto quanto deriva e deriverà ancora dai miei lavori, ma si faccia ognuno da sé, come sa, come può, la sua vita. Io, della mia, non so più che farmene. Lavoro a più non posso, per non avvertirne il peso(4).
Il 1926 è l’anno cruciale delle difficoltà finanziarie in cui si imbatté la famiglia dei Pirandello e del conseguente deterioramento dei rapporti interpersonali all’interno di essa. Per appianare la grave situazione che s’era venuta a creare, Pirandello sarebbe stato costretto a vender da lì a qualche anno, nell’ottobre del 1929, il villino romano di via Panvinio. A Stefano, che continuava a battere cassa, Luigi manifestava la sua stanchezza, scrivendo il 6 agosto 1929: Con casa franca e quattromila lire al mese dovresti poter campare tranquillamente e decentemente. Se non riesci a camparci, il difetto dev’essere nella regola e nell’economia. Ma lasciamo anche questo doloroso discorso. E’ veramente una fatalità crudele ch’io debba lavorare fino all’ultimo in mezzo alle amarezze e alle contrarietà. E altrove: Io lavoro, a 61 anni, dalla mattina alla sera, senza darmi tregua(5) e ancora: mi vedo a sessantadue anni nella condizione di guadagnarmi ancora soldo a soldo la vita, oppresso da pesi che non riesco più a sostenere, pieno di debiti che non so come pagare. E non meno impegnativo e duro, come annota la Muscarà, era l’attivismo di Stefano, il quale di sé scriveva: Io lavoro dalla mattina alla sera come sotto le frustate.
Tutta la corrispondenza fra i due è costellata anche di affettuose espressioni di tenerezza, cui Stefano associa una perfetta regìa d’effetti emotivi, un gusto musicale della pausa e della variazione, reinventando di volta in volta il formulario dei saluti(6). Non manca qua e là qualche nota ludica che si fa largo nella rete delle molteplici e variegate incombenze personali dei due, cui la corrispondenza tiene seguito.Persino nelle questioni più delicate, quelle concernenti l’intimità della persona, l’epistolario mette lo zampino per forza di cose. Il rapporto speciale stabilitosi tra Luigi e Stefano non può talvolta esimere i due dallo scandaglio intimo. Il 19 marzo 1929 da Berlino Luigi scriveva stizzito al figlio : Parliamoci chiaro, Stenù. A che vuoi alludere? Vuoi alludere alla mia relazione con la signorina Marta Abba? Io ti dissi una volta di che natura è questa relazione: e tu…mostrasti di comprenderla e di credere a quanto ti dissi. Dimmi ora francamente: non lo credi più? Hai torto, Stenù. Io sento per la signorina Abba un affetto purissimo e vivissimo, per le cure filiali che ha avuto per me, per il conforto che mi ha dato della sua compagnia in tre anni di vita raminga, per l’amore fervidissimo e l’intelligenza che ha dimostrato sempre d’avere per la mia arte(7). Momenti come questi evidenziano in modo chiaro la valenza terapeutica che l’epistolario di due spiriti grandi può assumere riguardo a certe lacerazioni personali e a certi problemi in ordine ai quali i sentimenti, come annota la Muscarà, vengono messi all’aria come vestiti smessi da sottrarre al tanfo d’una chiusa miseria(8).
L’ampia introduzione al carteggio e, soprattutto il ricchissimo apparato di note critiche ed esplicative, che occupano ben centoquarantadue pagine, servono a sviscerare con rara acribia analitica tutte le implicazioni relazionali e i riferimenti, anche minimi, presenti nell’epistolario, tanto in direzione della sfera privata e, come dire, pratica della vita, quanto in direzione di quella pubblica e artistico-letteraria dei due protagonisti.Alla fine del virtuale viaggio che padre e figlio ci permettono di fare con loro, o, se si vuole, dell’incursione, se non indiscreta, certo intrusiva fra loro, c’è da riconoscere e ammettere con la curatrice della pubblicazione che finiscono per ricomporsi le molteplici tessere della ricca,controversa, aggrovigliata biografia dei due dialoganti: il problematico ambiente famigliare, le dinamiche poetiche, l’interscambio tra letteratura, teatro, cinema, il clima socio-politico, lo spazio privato e quello pubblico,attraversato da profonde crisi e radicali trasformazioni con all’orizzonte una società in fermento. E si anima attraverso il tracciato sicuro della dialettica epistolare, che si tramuta in tessuto narrativo,un’affascinante storia, mentre sfilano, con i componenti della difficile e tormentata famiglia Pirandello, personaggi tra i più autorevoli dei primi decenni del Novecento(9)

NOTE
L. Pirandello – S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, a c. di S. Zappulla Muscarà, Catania, La Cantinella 2oo5, p.74.
Ivi, p.12.
Ivi, pp.137-138..
Ivi, p.72
Ivi, p.133.
Ivi, p.14.
Ivi, p.118.
Ivi, p.14.
Ivi, p.31.


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